...da quando era morto suo figlio, cinque anni prima, aveva cominciato a parlare con lui a certe ore del giorno e della notte e, affinando l’udito, giorno dopo giorno, parola dopo parola, aveva imparato a distinguere e a comprendere la lingua dei morti.Sentiva le voci dentro i muri delle case diroccate, nelle fessure dei marciapiedi, il rumore dei passi sui suoi passi, nei tombini di ferro e nello scorrere dell’acqua piovana dalle grondaie, appoggiando l’orecchio sui pali della luce o sulle rotaie del treno. Aveva imparato ad alzare il volume della voce di suo figlio ravvivando il fuoco nel camino, con il ventaglio di penne di gallina o aprendo due finestre opposte per far corrente d’aria tra le stanze della casa...
Massimo Bubola, Ballata senza nome, Frassinelli 2017, pagina 3.